smart woking francesco pastoressa

Non è oro tutto quel che è smart

Oggi lo smart working viene osannato in ogni modo.

Più produttività, compiti svolti più velocemente, nessun collega fastidioso.

In più, posso lavorare con tutta la libertà di potermi prendere una pausa quando e come voglio, di poter rispondere al telefono e di poter farmi uno snack.

Wow.

Si leggono online diversi articoli e interviste dove dipendenti si dicono contentissimi di aver iniziato a lavorare in maniera smart. Di poter stare con i figli, di non dover prendere la metro e così via.

Tuttavia, credo che questa “rivoluzione” (non userei ancora la parola evoluzione) debba essere portata avanti con criterio.

Vorrei lasciare da parte le ridicole e anacronistiche discussioni su come gestire i meeting, le call e i progetti in modalità smart. Se un’azienda è innovativa non ha questi problemi. E nel 2020 non è concepibile che un’impresa non sia innovativa (crisi Coronavirus docet). Ho scritto un articolo su come un’impresa può vincere la crisi grazie al mindset dell’innovazione.

Prima di tutto, consideriamo che lo smart working è nato ed è efficacissimo in contesti nei quali esiste una certa cultura aziendale.

In cui si lavora per obiettivi, in cui i KPI sono autodeterminati e in cui i ritmi sono decisi in autonomia. Nelle softwarehouse, in certe agenzie e in generale in tutti i settori in cui si portano avanti progetti singolarmente. Ovvero, nelle aziende in cui ognuno è responsabile di se stesso.

In questi casi, posto l’obiettivo del progetto, poco importa se si lavora lentamente, velocemente, dall’ufficio o dal parco, la notte o il giorno.

Il work-life balance può dirsi salvo perché non esiste alcun work-life balance. Tutto è mescolato.

E credo che sia proprio quell’autonomia totale che si ha in ufficio che a casa permette questa commistione.

Ma queste sono aziende e attività che si sono sempre comportate così (basti pensare alla Silicon Valley dove questo “rivoluzionario” smart working era la norma anche anni e anni fa).

smart working francesco pastoressa

E poi ci sono le aziende vecchio stile, o meglio quelle normali.

Quelle aziende in cui entri alle 9.00, alle 11.00 hai la pausa caffè e ti confronti con i colleghi.

Quelle imprese in cui dalle 13.00 alle 14.00 hai la pausa pranzo, quell’ora d’aria tanto monotona quanto speciale per il suo contesto.

E poi via il countdown verso le 18.00, che riduce moltissimo quelle ultime 4 ore.

E poi ci sono le battute con i colleghi, i meeting flash, i fogli da stampare, le occasioni da festeggiare in cui tutti premono il tasto “pause”, le discussioni…

Forse, tutto quello che in ufficio odiavamo era ciò che colorava la giornata e la rendeva meno monotona, più diversa. Semplicemente, la vita d’azienda.

Una sorpresa, ogni giorno nella sua monotonia.

Tutto questo, tutto questo colore nei temi del grigio, a casa non c’è.

C’è sempre la stessa scrivania (della cucina o della camera), le stesse pareti, gli stessi suoni.

La pausa pranzo la fai nella stessa stanza in cui lavori, le pause caffè diventano così tante da allungare ulteriormente una giornata infinita.

E poi non ci sono i colleghi, le riunioni, i fogli da stampare, le discussioni con il capo, i pettegolezzi tra i colleghi.

Guarda caso, manca proprio ciò che rendeva il lavoro più divertente, più sociale, meno monotono.

In effetti, troppa libertà si è trasformata in una prigionia senza precedenti.

Per non parlare delle madri lavoratrici o dei padri che devono fare i conti con i figli (specialmente ora nell’epoca Covid).

Per non parlare dei vicini.

E a fine giornata non si può nemmeno staccare definitivamente: no, perché l’ufficio è la casa, il luogo di performance diventa come per magia luogo di relax. Impensabile vero?

Quindi l’unico modo per svagarsi davvero è uscire.

Ma se la mia giornata finisce alle 19-20, devo fare la cena. E se preparo la cena sono libero alle 21-22. Ho ancora voglia di uscire?

No, meglio riposarmi con un bel film accanto alla mia scrivania che tra meno di 9 ore mi vedrà seduto a ripetere questo rituale.

smart working francesco pastoressa

Credo che lo smart working possa davvero essere portato avanti da qualunque impresa moderna, ma con criterio.

Non nascondiamoci dietro ad un dito: sul luogo di lavoro l’essere umano ha un comportamento diverso da quello che ha a casa.

Ed è giusto così, è un modo per mantenere l’equilibrio.

Non si tratta di fingere, come si potrebbe banalmente credere.

No, si tratta semplicemente di porci nel mindset giusto per focalizzare tutte le nostre energie per fare bene il nostro lavoro.

Ed essere immersi completamente in un luogo di lavoro, aiuta enormemente (e indirettamente) questa operazione mentale di focalizzazione.

Non sto parlando di distrazioni, ma di effetto framing: se tutto mi rimanda al lavoro, allora so che quello devo fare e la mente automaticamente assume questa caratteristica.

Ma il framing mentale della propria casa non è quello che abbiamo in ufficio. Certo, potremmo concentrarci, ma sarà sempre un’operazione cognitiva faticosa, perché andiamo contro quello che automaticamente la mente ci dice.

In psicologia l’effetto framing è potentissimo perché in base al contesto, la mente si condiziona automaticamente.

Esempio: se parlo in percentuale dei morti di una nuova cura, avrò una cattiva opinione della cura. Se invece parlo in percentuale dei guariti e non nomino i morti, allora avrò una buona opinione della stessa cura.

La stessa cosa avviene in ufficio: se sono in ufficio mi viene automatico comportarmi in maniera professionalmente efficiente. Se sono a casa mi viene naturale fare tutto con rilassamento e tranquillità.

Ora immaginate come questo comportamento automatico e naturale (il sistema 1 in psicologia) possa incidere nello smart working.

Ecco perché quando si parla di smart working la questione è più complessa di una semplice riduzione dei tempi di percorrenza a lavoro o di maggiori libertà.

Si tratta di una questione psicologica per nulla di poco conto.

smart working coronavirus francesco pastoressa

Magari sul breve termine gli effetti possono essere positivi, ma in certe condizioni.

Che possono essere:

  • essere un’azienda che lavora sempre per progetti autonomi
  • essere un’impresa innovativa e digitale
  • essere un lavoratore con mezzi di lavoro propri efficienti (computer e connessione)
  • avere situazione familiare agevole (un single lavora meglio del padre con tre figli)
  • avere una stanza o angolo preposto al lavoro (dove lo svago sia bandito)
  • ma soprattutto, alternare smart con tradizionale (settimanalmente).

Si tratta di psicologia, non di sfrenata efficienza.

Se forziamo il nostro sistema decisionale 1 (quello che agisce in automatico e che reagisce agli stimoli come il framing), faremo molta più fatica a ragionare.

Ps. di effetto framing e sistema 1 &2 ne avevo parlato in questo articolo.

Perché staremo sforzando e cercando di controllare dei fattori esogeni: l’ambiente di casa che rimanda al relax.

In sostanza, a furia di fare smart working ci ritroveremo nomadi senza una vera casa in cui riposarci. In un mondo in cui tutto è ufficio.

La soluzione credo sia semplice: decidere a priori quali progetti sono possibili da portare avanti in modalità smart e lasciare al dipendente decidere quale e quando farlo. Magari dando un monte ore di smart da spendere al mese (che non deve assolutamente coincidere con permessi o ferie, che sono un’altra cosa).

Non per nulla si chiama lavoro smart: è il lavoro che deve diventare più intelligente, non il nostro tempo libero.

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